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Corte Costituzionale; memoria illustrativa Prof. Avv. Luca Antonini.

Caro Paolo,ti trasmetto la memoria depositata dal prof.Luca Antonini alla Corte Costituzionale mercoledi' scorso,in relazione al ricorso della regione Veneto 94/2015;credo che,per l'indubbio valore giuridico,debba essere attentamente letta e studiata da ogni collega.Ti ringrazio e ti saluto con una cordiale stretta di mano,Ciro Mennella.p.s. puoi pubblicarla sul tuo sito?grazie

Si ringrazia il Collega Ciro Mennella per il preziosissimo lavorio e contributo e per l'occasione di contatto con il Prof. Avv. Luca Antonini.

Si consiglia tutti i colleghi di leggere con attenzione la memoria che segue per comprendere che il valore professionale pluri secolare dei segretari comunali almeno è conosciuto da qualcuno a prescindere dalle campagne di disinformazione.

PB

ECC.MA CORTE COSTITUZIONALE
MEMORIA ILLUSTRATIVA
RICORSO N. 94/2015
Udienza del 19 ottobre 2016: rel. Sciarra
relativa al ricorso n. 94/2015 proposto dalla REGIONE VENETO (C.F.80007580279 – P.IVA 02392630279), in persona del Presidente della Giunta Regionale dott. Luca Zaia (C.F. ZAILCU68C27C957O), autorizzato con deliberazione della Giunta regionale n. 1219 del 28 settembre 2015 rappresentato e difeso, tanto unitamente quanto disgiuntamente, dagli avv.ti Ezio Zanon (C.F. ZNNZEI57L07B563K), coordinatore dell’Avvocatura regionale, prof. Luca Antonini (C.F. NTNLCU63E27D869I) del Foro di Milano e Luigi Manzi (C.F. MNZLGU34E15H501V) del Foro di Roma,

contro

il PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale è domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12 per la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle seguenti disposizioni della legge n. 124 del 7 agosto 2015 recante: “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, pubblicata nella G.U. n. 187 del 13 agosto 2015:

dell’art. 1, comma 1, lett. b), c) e g), e comma 2; dell’art. 23, comma 1;

dell’art. 11, comma 1, lett. a), b), p.to 2), lett. c), p.ti 1 e 2, lett. e), f), g), h), i), l), m), n), o), p), q), e comma 2;

dell’art. 16, commi 1 e 4;

dell’art. 17, comma 1, lett. a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s), t);

dellart. 18, lett. a), b), c), e), i), l) e m), punti da 1 a 7; 

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dell’art. 19, lett. b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t), u);

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Le ragioni dell’incostituzionalità delle disposizioni impugnate sono già state ampiamente illustrate nel ricorso e ad esse integralmente si rimanda confermando le censure ivi esposte. Si ritiene opportuno, in questa sede, replicare alle osservazioni di cui alla memoria di costituzione dell’Avvocatura dello Stato e svolgere alcuni approfondimenti.

1. Premessa generale.

Fin dalla sentenza n. 224 del 1990, Codesta Ecc.ma Corte, ha affermato che la legge di delega, in quanto atto avente forza di legge, soggiace, ai sensi dell’art. 134 Cost., al controllo di costituzionalità in via principale, di cui, in particolare, può divenire oggetto, quando sia idonea a “concretare una lesione attuale dell’autonomia regionale” (ex plurimis, sent. n. 278/2010).

Nelle censure prospettate nel ricorso si contestano disposizioni sufficientemente puntuali che, in ragione del tasso di determinatezza dei princìpi e criteri direttivi, sono tali da pregiudicare in modo univoco le attribuzioni costituzionalmente garantite alla Regione.

In alcuni casi le disposizioni impugnate sono già state tradotte in decreti legislativi entrati in vigore:

1) decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 179, recante Modifiche ed integrazioni al Codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ai sensi dell'articolo 1 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, pubblicato nella G.U. n. 214 del 13 settembre 2016;

2) decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, recante Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, pubblicato nella G.U. n. 210 dell’8 settembre 2016;

3) decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171, recante Attuazione della delega di cui all'articolo 11, comma 1, lettera p), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di dirigenza sanitaria, pubblicato nella G.U. n. 206 del 3 settembre 2016.

In altri casi il procedimento di approvazione degli stessi non si è ancora

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concluso (Schema di decreto legislativo recante Disciplina della dirigenza della Repubblica, approvato dal Consiglio dei Ministri in via preliminare il 25 agosto 2016; Schema di decreto legislativo recante Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale, approvato dal Consiglio dei Ministri il 20 gennaio 2016), sebbene versi in stadio avanzato.

La regione Veneto, nei termini previsti, si riserva la valutazione, anche a seguito dell’esito del presente giudizio, sull’impugnazione dei suddetti decreti.

Si precisa, in ogni caso, che in questa sede l’eventuale riferimento ai decreti già entrati in vigore o in fase avanzata nel relativo procedimento di adozione, è stato effettuato solo ad abundantiam, allo scopo di confermare la circostanza, già di per sé evidente, dell’univoca idoneità delle disposizioni impugnate a violare le attribuzioni regionali.

Nelle norme qui impugnate, infatti, non è ravvisabile la possibilità di svolgimenti normativi compatibili con l’autonomia regionale.

Il tutto, come ribadito a più riprese nel ricorso, in assenza di un sufficiente livello di concertazione regionale.

Ciò emerge con evidenza innanzitutto replicando al p.to 1 delle deduzioni della Avvocatura di Stato, dove si evidenzia che “la Ricorrente ritiene che tutte le disposizioni impugnate non prevedrebbero, ai fini della loro attuazione, un adeguato coinvolgimento delle regioni, non sostituibile dal mero criterio della prevalenza del legislatore statale, secondo il quale i decreti legislativi attuativi sono adottati su proposta del Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, previa acquisizione del Pareredella Conferenza unificata da rendere nel termine di 45 giorni dalla trasmissione di ciascuno schema di decreto, decorso il quale termine il Governo potrà comunque procedere”.

Secondo l’Avvocatura, invece, le “disposizioni impugnate - in ordine alle quali si lamenta la violazione del principio di leale collaborazione nei predetti termini - prevedono ognuna, ai fini dell'attuazione, un meccanismo di confronto autenticotra Stato e Regioni, tale da assicurare tutte le necessarie fasi dialogiche per l'adozione dei relativi decreti attuativi, che incidono su materie nelle quali sussistono forme di interferenzatra le relative competenze.

L’argomentazione si conclude quindi con la seguente affermazione, a dir poco sorprendente e senza alcuna (ma non poteva essere altrimenti) indicazione

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di riferimenti giurisprudenziali, per cui Intesa e Parere sarebbero strumenti tranquillamente surrogabili: “A questo fine, non conta la tipologia di procedurao di forma(Parere versus Intesa), ma la circostanza che le Regioni abbiano avuto modo di esprimere le proprie posizioni. Per questa ragione, la stessa Corte ha riconosciuto che, anche in casi in cui la previsione dell'Intesa di fatto ha corrisposto all'espressione di un Parere(avendo già il Governo definito l'atto e avendolo presentato successivamente alle Regioni), ciò non costituisse un vizio di legittimità del provvedimento, essendo comunque soddisfatta l'esigenza del confronto tra i differenti livelli di governo.”

Valga il vero.

La giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte è costante nel ritenere che il principio di leale collaborazione impone la previsione di una Intesa sia nei casi della c.d. “attrazione in sussidiarietà” statale di funzioni pertinenti a materie di competenza regionale o concorrente sia nei casi di interventi normativi in settori in cui vi è una connessione indissolubile tra materie di diversa attribuzione, senza la possibilità di rinvenirne una sicuramente prevalente.

Infatti, come recentemente ribadito nella sent. n. 21 del 2016, “deve, pertanto, trovare applicazione il principio generale, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 1 del 2016), per cui, in ambiti caratterizzati da una pluralità di competenze, qualora non risulti possibile comporre il concorso di competenze statali e regionali mediante un criterio di prevalenza, non è costituzionalmente illegittimo l’intervento del legislatore statale, «purché agisca nel rispetto del principio di leale collaborazione che deve in ogni caso permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2014, n. 237 del 2009, n. 168 e n. 50 del 2008) e che può ritenersi congruamente attuato mediante la previsione dell’Intesa» (sentenza n. 1 del 2016)”.

Lo strumento dell’Intesa, pertanto, appare, nella costante giurisprudenza costituzionale, tutt’altro che surrogabile con quello del Parere. A maggior ragione poi se il parere, come nel caso in esame, sebbene verta su materie senz’altro complesse, è previsto che venga reso entro un termine decisamente breve e vieppiù consentendo l’adozione unilaterale dell’atto nel caso del mero decorso del termine.

E’ di tutta evidenza, in conclusione, che lo strumento del Parere previsto

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in tutte le norme impugnate - e che, si noti bene, è stato concretamente adottato per l’adozione dei decreti legislativi senza che mai abbia trovato spazio lo strumento dell’Intesa, con ciò rendendo inequivocabili le violazioni prospettate nel ricorso sulle norme di delega - non è affatto idoneo a garantire il rispetto delle prerogative costituzionali della Regione (ex multis, sent. n. 39 del 2013).

2. Illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. b), c) e g), e comma 2, nonché dell’art. 23, comma 1, della legge 7 agosto 2015, n. 124, per violazione degli articoli 5, 81, 117, II, III e IV comma, 118 e 119 della Costituzione, nonché del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.

Nella memoria di costituzione, l’Avvocatura dello Stato contesta le deduzioni della ricorrente sostenendo che le disposizioni impugnate “attengono unicamente al coordinamento sul piano tecnico delle varie iniziative di innovazione tecnologica”. Pertanto “l’oggetto della disciplina della norma impugnata deve essere ricondotto alla materia coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale’ di competenza legislativa esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione”. Questo in quanto “dette disposizioni attengono unicamente al coordinamento sul piano tecnico delle varie iniziative di innovazione tecnologica, allo scopo di consentire, nella concorrente necessaria valutazione della economicità degli interventi, la comunione di linguaggio, di procedure e di standard omogenei, in un ambito quindi unitario, in modo tale da permettere la più efficace comunicabilità tra i sistemi informatici delle varie amministrazioni”.

La memoria conclude quindi asserendo che, “la previsione di un Parere della Conferenza unificata appare del tutto idonea ad assicurare il necessario coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali, in considerazione del rilievo eminentemente tecnico delle operazioni regolate dalla fonte statale”.

Il rilievo è privo di pregio.

Come dimostrato nel ricorso, le disposizioni impugnate, nel loro tenore testuale, trascendono il mero “coordinamento tecnico” e invadono vari ambiti competenziali di pertinenza regionale in materia, ad esempio, di sanità, turismo,

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attività di impresa e organizzazione amministrativa regionale.
La dizione letterale utilizzata dal legislatore delegante, infatti, trascende nettamente il confine che Codesta Ecc.ma Corte ha segnato alla possibilità di invocare, a giustificazione delle norme impugnate, la materia del coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale di competenza legislativa esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione.
E’ utile, a conforto di tale affermazione, considerare alcune specifiche disposizioni di cui al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 179, recante 

Modifiche ed integrazioni al Codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ai sensi dell'articolo 1 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche che prevede, ad esempio, all’art. 3, comma 1, lett. b), in modifica al testo dell’art. 3, d.lgs. n. 82 del 2005: 

dopo il comma 1-ter sono aggiunti i seguenti: "1-quater. La gestione dei procedimenti amministrativi è attuata dai soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, in modo da consentire, mediante strumenti informatici, la possibilità per il cittadino di verificare anche con mezzi telematici i termini previsti ed effettivi per lo specifico procedimento e il relativo stato di avanzamento, nonché di individuare l'ufficio e il funzionario responsabile del procedimento

1-quinquies. Tutti i cittadini e le imprese hanno il diritto all'assegnazione di un'identità digitale attraverso la quale accedere e utilizzare i servizi erogati in rete dai soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, alle condizioni di cui all'articolo 64”. 

Parimenti, l’art. 9, comma 2, in modifica dell’art. 8 del d.lgs. n. 82 del 2005 introduce l’articolo seguente: 

«Art. 8-bis. (Connettività alla rete Internet negli uffici e luoghi pubblici). - 1. I soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, favoriscono, in linea con gli obiettivi dell'Agenda digitale europea, la disponibilità di connettività alla rete Internet presso gli uffici pubblici e altri luoghi pubblici, in particolare nei settori scolastico, sanitario e di interesse turistico, anche prevedendo che la porzione di banda non utilizzata dagli stessi uffici sia messa a disposizione degli utenti attraverso un sistema di autenticazione tramite SPID, carta d'identità elettronica o carta nazionale dei servizi, ovvero che rispetti gli standard di 

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sicurezza fissati dall'Agid.
2. I soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, mettono a disposizione degli utenti connettività a banda larga per l'accesso alla rete Internet nei limiti della banda disponibile e con le modalità determinate dall'AgID.»”.

Tali disposizioni attuative rendono evidente l’effettiva portata delle norme impugnate, che lungi dal rappresentare un intervento diretto ad “assicurare una comunanza di linguaggi, di procedure e di standard omogenei, in modo da permettere la comunicabilità tra i sistemi informatici della pubblica amministrazione” (sent. n. 17 del 2004), invece incidono in modo del tutto puntuale sui procedimenti amministrativi regionali, anche affermando nuovi diritti degli utenti degli stessi.

E’ evidente, quindi, che il riferimento al coordinamento informatico è, in questo caso, puramente strumentale ad un intervento sostanziale sulle materie regionali sopra ricordate.

Il legislatore delegante statale è quindi andato certamente al di là dell’esigenza di garantire “la più efficace comunicabilità tra i sistemi informatici delle varie amministrazioni” ed è invece intervenuto “sull’esercizio concreto delle funzioni nella materia dell’organizzazione amministrativa delle Regioni” (sent. n. 31 del 2005).

Dal momento quindi che la giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte ha fissato con chiarezza il confine degli interventi statali, anche laddove ascrivibili alla lettera r) del secondo comma dell'art. 117 Cost. (si veda al riguardo anche la sent. n. 133 del 2008), la semplice consultazione della Conferenza unificata non garantisce la sufficiente tutela del fondamentale principio della leale collaborazione, essendo necessario, invece, un “più incisivo coinvolgimento di tali enti ... mediante lo strumento dell’Intesa”.

Tale esigenza, invero, era stata evidenziata anche in seno alla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e recepita in toto dal Parere della Conferenza unificata a del 3 marzo 2016 laddove, tra le criticità principali dello schema di decreto attuativo, si rilevava che: “l’attuazione in tutte le amministrazioni del codice richiede l’individuazione di un modello organizzativo e tecnologico chiaro e agile che coinvolga i diversi livelli istituzionali, soprattutto in considerazione della riorganizzazione in atto degli

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enti sul territorio come le città metropolitane, le aree vaste e più in generale la riorganizzazione imposta dalla legge “Delrio” di riforma delle province (...), in questo senso le modifiche hanno eliminato alcuni ruoli istituzionali che il procedente CAD prevedeva a cominciare dal ruolo delle Regioni e Province Autonome all’interno di un modello tecnologico policentrico, federato e non gerarchico, l’assenza di ruoli chiari e definiti pregiudica la possibilità di darne piena attuazione come del resto previsto dalla delega al comma [1] lettera i)”.

3. Illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lett. a), b), p.to 2), lett. c), p.ti 1 e 2, lett. e), f), g), h), i), l), m), n), o), p), q), e comma 2, della legge 7 agosto 2015, n. 124, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 117, III e IV comma, e 118 della Costituzione, nonché del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.

3.1. Con riferimento alle deduzioni relative alla dirigenza pubblica, l’atto di costituzione dell’Avvocatura dello Stato richiama la medesima giurisprudenza citata dalla Ricorrente, in particolare la sentenza n. 149 del 2012, che ha ribadito che “l’impiego pubblico anche regionale deve ricondursi, per i profili privatizzati del rapporto, all’ordinamento civile e quindi alla competenza legislativa statale esclusiva, mentre i profili pubblicistico-organizzativi rientrano nell’ordinamento e organizzazione amministrativa regionale e quindi appartengono alla competenza legislativa residuale della Regione”. L’Avvocatura, però, pur asserendo che “nell’ambito del pubblico impiego (materia oggetto di numerose previsioni di delegificazione censurate nel ricorso che ha portato alla decisione in oggetto) si intrecciano aspetti afferenti alla competenza esclusiva dello Stato con altri che eccedono dai limiti delle competenze statali”, sottolinea anche che “nell’ambito del pubblico impiego vi è una commistione di competenze statali e regionali, e che data l’ampiezza dell’intervento (di delegificazione, nel caso deciso con la sentenza n. 149 del 2012) non è possibile determinare in via preventiva e astratta quali, tra le misure che saranno eventualmente contenute nei regolamenti di delegificazione, dovranno essere ritenute vincolanti per le Regioni”.

Secondo l’Avvocatura, quindi, anche nel caso di specie, non sarebbe possibile stabilire se le disposizioni della legge delega citate in epigrafe siano già vincolanti per le Regioni (e quindi lesive delle relative attribuzioni).

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Il rilievo è privo di pregio.
La sentenza n. 149 del 2012 aveva infatti ad oggetto l’emanazione di norme di delegificazione che la stessa disposizione (articolo 16, d.l. n. 98 del 2011) prevedeva come meramente eventuale1.

Nel presente caso, invece, le disposizioni impugnate della legge delega n. 124 del 2015 sono immediatamente ed univocamente lesive delle attribuzioni regionali. I principi e criteri direttivi in esse stabiliti incidono, infatti, direttamente e inequivocabilmente su profili del pubblico impiego pacificamente rientranti nella materia di competenza residuale relativa all’organizzazione amministrativa regionale, concretando così una lesione attuale dell’autonomia regionale.

3.2. Per contro, la sentenza n. 149 del 2012 merita di essere qui riproposta con riguardo al criterio generale, che essa ribadisce e che è già stato affermato

1 Ai sensi dell’art. 16, comma 1, del d.l. n. 98 del 2011 (convertito con modificazioni dalla l. n. 111 del 2011): “Al fine di assicurare il consolidamento delle misure di razionalizzazione e contenimento della spesa in materia di pubblico impiego adottate nell'ambito della manovra di finanza pubblica per gli anni 2011-2013, nonché ulteriori risparmi in termini di indebitamento netto, non inferiori a 30 milioni di euro per l'anno 2013 e ad euro 740 milioni di euro per l'anno 2014, ad euro 340 milioni di euro per l'anno 2015 ed a 370 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2016 con uno o più regolamenti da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e dell'economia e delle finanze, può essere disposta: (...) b) la proroga fino al 31 dicembre 2014 delle vigenti disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici anche accessori del personale delle pubbliche amministrazioni previste dalle disposizioni medesime; ((41)) c) la fissazione delle modalità di calcolo relative all'erogazione dell'indennità di vacanza contrattuale per gli anni 2015-2017; d) la semplificazione, il rafforzamento e l'obbligatorietà delle procedure di mobilità del personale tra le pubbliche amministrazioni; e) la possibilità che l'ambito applicativo delle disposizioni di cui alla lettera a) nonché, all'esito di apposite consultazioni con le confederazioni sindacali maggiormente rappresentative del pubblico impiego, alla lettera b) sia differenziato, in ragione dell'esigenza di valorizzare ed incentivare l'efficienza di determinati settori; f) l'inclusione di tutti i soggetti pubblici, con esclusione delle regioni e delle province autonome, nonché degli enti del servizio sanitario nazionale, nell'ambito degli enti destinatari in via diretta delle misure di razionalizzazione della spesa, con particolare riferimento a quelle previste dall'articolo 6 del decreto-legge 31 maggio 2010 n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122; (...)”.

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da costante giurisprudenza (come ricordato nel ricorso), secondo cui gli aspetti organizzativo-pubblicistici della materia pubblico impiegorientrano nella competenza residuale regionale.

Con riguardo a tale profilo, l’Avvocatura dello Stato si dilunga sulla giurisprudenza costituzionale relativa agli aspetti civilistici del pubblico impiego rientranti nella competenza esclusiva statale (ordinamento civile), senza però contestare le censure di quelle disposizioni normative impugnate che incidono su aspetti pubblicistico-organizzativi di evidente competenza residuale regionale.

In proposito, come già come già evidenziato da questa difesa nel ricorso, è pacifico che le seguenti disposizioni impugnate devono essere ascritte alla materia “ordinamento e organizzazione amministrativa regionale”.

In particolare:
• l’art.11, comma 1, lett. c) p.to 1 e 2 prevede l’accesso alla dirigenza regionale solo ed esclusivamente nelle forme ivi definite del corso- concorso e del concorso. Peraltro, proprio in tal senso lo schema del relativo decreto legislativo, approvato dal Consiglio di Ministri lo scorso 25 agosto 2016, all’art. 3, interviene a modificare l’art. 28 del d.lgs. n. 165 del 2001, prima riferito solo alle amministrazioni statali, estendendone la disciplina alle Regioni.

Tuttavia, l’accesso al pubblico impiego regionale e i relativi concorsi, inclusi quelli per le progressioni di carriera, sono stati ricondotti da costante giurisprudenza di questa Ecc.ma Corte nell’ambito della organizzazione amministrativa regionale (sentenze n. 235 del 2010; n. 95 del 2008; n. 380 del 2004). La disposizione impugnata, pertanto, viola palesemente l’ambito di competenza delle Regioni, i cui spazi di autonomia in tale materia sono illegittimamente compressi.

• L’art. 11, comma 1, lett. e) prevede la definizione degli obblighi formativi annuali e delle modalità del relativo adempimento, il coinvolgimento dei futuri dirigenti, nonché il loro obbligo di prestare gratuitamente la propria opera intellettuale per le attività di formazione.

La norma impugnata quindi esautora le Regioni della loro potestà legislativa esclusiva nella materia indicata. Ciò trova conferma anche nello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri, il quale,

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all’art. 3 aggiunge l’art. 28-quater al d.lgs. n. 165 del 2001, introducendo disposizioni di dettaglio sulla formazione dei dirigenti.

Inoltre, l’introduzione di obblighi formativi annuali, il coinvolgimento dei dirigenti di ruolo nella formazione dei futuri dirigenti e l’obbligo di prestare gratuitamente la propria opera intellettuale per tali attività, rappresentano senz’altro una sostanziale modifica che attrae nella competenza statale quando invece il d.lgs. n. 165 del 2001 rimetteva alle Regioni. E’ di tutta evidenza, pertanto, l’invasione della competenza regionale in tale materia, posto che la formazione professionale, in via generale, è pienamente ascrivibile alla competenza regionale residuale. Questa Ecc.ma Corte ha anche precisato che “non si spiega per quale motivo le Regioni, dotate di potestà primaria in materia di formazione professionale, non possano regolare corsi di formazione relativi alle professioni” (sentenze n. 11 del 2014; n. 108 del 2012; n. 271 del 2009).

Si deve quindi ritenere che la disciplina riguardante la formazione professionale dei propri dipendenti (dirigenti compresi) rientri nelle competenze residuali regionali relative alla formazione professionale e all’organizzazione amministrativa o comunque, in ogni caso, non possa essere ascritta alla competenza in materia di ordinamento civile.

Alla censura esposta nel ricorso, peraltro, l’Avvocatura dello Stato non è in grado di obiettare alcunché.

• La disposizione di cui all’art. 11, comma 1, lett. g) introduce numerose disposizioni che assegnano allo Stato la disciplina del conferimento degli incarichi dirigenziali. Ne è riprova l’introduzione, ad opera dello schema di decreto legislativo, dell’art. 19-bis al d.lgs. n. 165 del 2001.

La materia de qua, però, con riferimento ai dirigenti regionali, è ascrivibile alla competenza regionale residuale, essendo riconducibile a quella statale solo quella inerente al conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’Amministrazione (sentenze n. 212 del 2012; n. 310 del 2011; n. 238 del 2011). Segnatamente, la Corte ha affermato che “[s]i tratta di una normativa riconducibile alla materia dell’ordinamento civile di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., poiché il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni, disciplinato dalla normativa citata, si realizza mediante la stipulazione di un contratto di lavoro di diritto privato.

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Conseguentemente, la disciplina della fase costitutiva di tale contratto, così come quella del rapporto che sorge per effetto della conclusione di quel negozio giuridico, appartengono alla materia dell’ordinamento civile. In particolare, l’art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001 contiene una pluralità di precetti relativi alla qualificazione professionale ed alle precedenti esperienze lavorative del soggetto esterno, alla durata massima dell’incarico (e, dunque, anche del relativo contratto di lavoro), all’indennità che – a integrazione del trattamento economico – può essere attribuita al privato, alle conseguenze del conferimento dell’incarico su un eventuale preesistente rapporto di impiego pubblico e, infine, alla percentuale massima di incarichi conferibili a soggetti esterni (il successivo comma 6-bis contiene semplicemente una prescrizione in tema di modalità di calcolo di quella percentuale). Tale disciplina non riguarda, pertanto, né procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al pubblico impiego, né la scelta delle modalità di costituzione di quel rapporto giuridico. Essa, valutata nel suo complesso, attiene ai requisiti soggettivi che debbono essere posseduti dal contraente privato, alla durata massima del rapporto, ad alcuni aspetti del regime economico e giuridico ed è pertanto riconducibile alla regolamentazione del particolare contratto che l’amministrazione stipula con il soggetto ad essa esterno cui conferisce l’incarico dirigenziale” (sent. n. 324 del 2010).

Anche in questo caso, del resto, l’Avvocatura dello Stato non è in grado di obiettare nulla di specifico alla censura esposta nel ricorso.

• La disposizione dell’art. 11, comma 1, lett. h) assegna allo Stato la disciplina della durata degli incarichi dirigenziali. Lo schema di decreto legislativo, al riguardo, introduce l’articolo 19-quinquies al d.lgs. n. 165 del 2001.

Anche in relazione alla durata degli incarichi, però, valgono i rilievi esposti al punto precedente. Rientra, infatti, nella materia “ordinamento civile” solamente la disciplina della durata degli incarichi dirigenziali conferiti a soggetti esterni all’Amministrazione con contratti di diritto privato (sentenze n. 310 del 2011; n. 324 del 2010).

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La disciplina della durata degli incarichi a soggetti appartenenti all’Amministrazione, invece, è ascrivibile alla competenza residuale delle Regioni.

Anche in relazione a tale censura, l’Avvocatura dello Stato non obietta nulla di specifico.

• L’art. 11, comma 1, lett. l) introduce una disciplina riguardante la valutazione dei risultati finalizzata al conferimento dei successivi incarichi dirigenziali, nonché la costruzione del percorso di carriera in funzione degli esiti di tale valutazione.

La valutazione dei dirigenti regionali, tuttavia, è un’attività inevitabilmente connessa con l’organizzazione amministrativa regionale. Tale disposizione, inoltre, dando rilievo agli esiti della valutazione per il conferimento di successivi incarichi dirigenziali, è strettamente collegata alla previsione riguardante lo stesso conferimento degli incarichi dirigenziali (lett. g), che, come precedentemente dimostrato, con riguardo ai dirigenti regionali è da ritenersi di competenza residuale regionale. A maggior ragione, dunque, anche la disciplina di cui alla lettera l) è ascrivibile alla competenza esclusiva regionale, segnatamente all’organizzazione e amministrazione regionale.

3.3. Nonostante la certa ed inequivocabile incidenza delle disposizioni impugnate su una materia di competenza residuale regionale, però, la legge delega non prevede forme adeguate di coinvolgimento delle Regioni.

A detta dell’Avvocatura dello Stato, la previa Intesa prevista, solo ed unicamente, per l’istituzione del ruolo unico dei dirigenti regionali avrebbe carattere “preliminare” alle altre previsioni contenute nell’articolo in oggetto.

L’affermazione è priva di pregio, meramente apodittica e chiaramente contraddetta dalla stessa logica sistematica della legge delega.

L’istituzione del ruolo unico, infatti, si colloca, per espressa disposizione della legge delega, all’interno della disciplina dettata “con riferimento all’inquadramento” (art. 11, comma 1, lett. b)).

Tutte le altre disposizioni impugnate (art. 11, comma 1, lettere a) c), p.ti 1 e 2, lett. e), f), g), h), i), l), m), n), o), p), q) riguardano, invece, profili di altro tipo (come le norme dettate “con riferimento all’accesso”, ecc.). Si tratta, evidentemente, di fattispecie normative non sovrapponibili e che ineriscono

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ad ambiti puntuali incidenti sulla potestà legislativa regionale; tuttavia alle Regioni, in tali ambiti, è riconosciuta solo la possibilità di esprimere un mero parere: una forma di coinvolgimento, quindi, altamente inadeguata e insufficiente.

3.4. Da ultimo, secondo l’Avvocatura dello Stato, le censure relative alle lettere f) e i) del comma 1 dell’art. 11 sarebbero inammissibili, in quanto “si ritiene violato un precetto costituzionale diverso da quelli attinenti al riparto di competenze tra Stato e Regioni”.

Non è così.

Nel ricorso si è specificato che le disposizioni della lett. f), dirette a creare “un mercato” della dirigenza - senza considerare le esigenze delle amministrazioni che hanno effettuato le selezioni, con forme ampliate di mobilità non soltanto all’interno di ciascun ruolo e tra un ruolo e l’altro, ma anche tra amministrazioni pubbliche e il settore privato, prevedendo anche casi e condizioni “nei quali non è richiesto il previo assenso delle amministrazioni di appartenenza per la mobilità della dirigenza medica e sanitaria” - ridondano con tutta evidenza, per i suddetti motivi, sulla materia dell’organizzazione amministrativa regionale.

Quanto alle disposizioni della lett. i) con riferimento ai dirigenti privi di incarico e alla disciplina della decadenza dal ruolo unico, come precisato nel ricorso, tali disposizioni configurano un significativo condizionamento della politica sulla dirigenza, perché di fatto introducono un meccanismo di “spoils system”, con decadenza dal ruolo unico a seguito di un determinato periodo di collocamento in disponibilità successivo ad una valutazione negativa. Si è precisato nel ricorso come, anche in questo caso, la lesione dei principi di ragionevolezza, buon andamento e affidamento si rifletta sulla competenza regionale in materia di organizzazione amministrativa, dal momento che una diversa disciplina della fattispecie è completamente preclusa alla legislazione regionale.

Si deve ritenere pertanto ammissibile la deduzione prospettata perché è stato “assolto l’onere di necessaria indicazione, non solo della specifica competenza regionale asseritamente offesa, ma anche delle ragioni della lesione lamentata” (Corte cost. sent. n. 65 del 2016).

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3.5. In relazione alle censure attinenti alla lett. p), relativa alla dirigenza sanitaria, la memoria di costituzione dell’Avvocatura dello Stato obietta che si verificherebbe, nel caso di specie, una “prevalenza” della “materia tutela della salute”, posta “la stretta inerenza” che tali norme presentano con la “organizzazione del servizio sanitario e, in definitiva, con le condizioni per la fruizione delle prestazioni rese all’utenza, essendo queste ultime condizionate, sotto molteplici aspetti, dalla capacità, dalla professionalità e dall’impiego di tutti i sanitari addetti ai servizi, e segnatamente di coloro che rivestono una posizione apicale” (così afferma la memoria, citando la sentenza n. 181 del 2006 di Codesta Ecc.ma Corte).

 

Dimentica, tuttavia, la memoria di costituzione un altro passaggio della medesima sentenza, laddove si precisa: “Né, in senso contrario, può obiettarsi che, nel caso di specie, il titolo “prevalente” idoneo a fondare una competenza a legiferare appartenente, addirittura, in via esclusiva allo Stato dovrebbe essere ravvisato nella materia “ordinamento civile”,exart. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione. In proposito, infatti, deve escludersi «che ogni disciplina, la quale tenda a regolare e vincolare l'opera dei sanitari, (...), rientri per ciò stesso nell'area dell'“ordinamento civile”, riservata al legislatore statale» (così la sentenza n. 282 del 2002)”.

Quindi, anche a voler riconoscere la prevalenza della materia della tutela della salute non viene superata la censura dedotta nel ricorso.

E’ del tutto priva di fondamento la affermazione contenuta nella memoria di costituzione per cui rimane “comunque nella disponibilità della Regione la possibilità di dettare una normativa di dettaglio (e, peraltro, nella stessa legge di delega, si richiama la disciplina di cui al decreto legislativo 30 dicembre

1992, n. 502, circa le competenze regionali sulle nomine dei dirigenti sanitari)”. Un’analisi oggettiva del contenuto delle norme impugnate, infatti, dimostra, senza possibilità di smentita, che il legislatore delegato ha effettuato, come sostenuto nel ricorso, con tutta evidenza un’attrazione in sussidiarietà (però illegittima) della disciplina relativa all’accesso alla dirigenza

sanitaria.
L’art. 3-bis del d.lgs. n. 502 del 1992 (si noti bene che quest’ultimo

decreto, a differenza di quanto artatamente sostenuto dalla Avvocatura dello

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Stato,  è fatto salvo dalla disciplina impugnata solo in relazione al suddetto art. 3 bis, ma per parti così residuali che non sono, come si preciserà, in nessun modo rilevanti ai fini qui esposti) disponeva infatti: “La regione provvede alla nomina dei direttori generali delle aziende e degli enti del Servizio sanitario regionale, attingendo obbligatoriamente all'elenco regionale di idonei, ovvero agli analoghi elenchi delle altre regioni, costituiti previo avviso pubblico e selezione effettuata, secondo modalità e criteri individuati dalla regione, da parte di una commissione costituita dalla regione medesima in prevalenza tra esperti indicati da qualificate istituzioni scientifiche indipendenti, di cui uno

designato dall'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.”

La lettera p) dell’art. 11 invece assegna, come ricordato nel ricorso, al legislatore statale delegato il compito di strutturare una “selezione unica [nazionale] per titoli”, la definizione dei titoli formativi e professionali, la selezione da parte di una commissione nazionale, la predisposizione di un elenco nazionale degli idonei istituito presso il Ministero della salute; l’obbligo per le Regioni di attingere per il conferimento dei relativi incarichi da una rosa di candidati predisposta dalla medesima Commissione nazionale.

L’art. 3-bis del d.lgs. n. 502 del 1992 prevedeva che le Regioni: i) organizzassero e attivassero corsi obbligatori “di formazione in materia di sanità pubblica e di organizzazione e gestione sanitaria”; ii) concordassero “in sede di Conferenza delle regioni e delle province autonome, criteri e sistemi per valutare e verificare tale attività”; iii) disciplinassero le “cause di risoluzione dei contratti”, nonché “le cause di risoluzione del rapporto con il direttore amministrativo e il direttore sanitario”.

La lettera p) dell’art. 11 delega al Governo: i) la definizione del “sistema

di verifica e di valutazione dell’attività dei direttori generali” anche in relazione, tra l’altro, “dei risultati del programma nazionale valutazione esiti dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali”; ii) la disciplina della “decadenza dall’incarico e possibilità di reinserimento soltanto all’esito di una nuova selezione nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi”; iii) la disciplina della “selezione per titoli e colloquio, previo avviso pubblico, dei direttori amministrativi e dei direttori sanitari, in possesso di specifici titoli professionali, scientifici e di carriera”.

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E’ del tutto evidente che i principi e i criteri definiti dal legislatore delegante hanno assegnato in modo puntuale l’intera materia dell’accesso alla dirigenza sanitaria al legislatore delegato, senza che, come evidenziato nel ricorso, rimanga alla Regione alcuno spazio normativo nel quale poter sviluppare una normativa di dettaglio in conformità al carattere concorrente della materia “tutela della salute”.

Da questo punto di vista, come si è anticipato, il richiamo all’art. 3-bis del d.lgs. n. 502 del 1992, che viene sostanzialmente abrogato nella sua interezza, non ha alcuna portata significativa nel permettere di escludere che il

legislatore delegato abbia strutturato una chiamata in sussidiarietà senza però rispettare i canoni richiesti dalla costante giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte per un uso legittimo dello “strumento della chiamata in sussidiarietà, cui lo Stato può ricorrere al fine di allocare e disciplinare una funzione amministrativa (sentenza n. 303 del 2003) pur quando la materia, secondo un criterio di prevalenza, appartenga alla competenza regionale concorrente, ovvero residuale”.

Infatti, “questa Corte ha affermato a tal proposito che «perché nelle materie di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., una legge statale possa legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello centrale ed al tempo stesso regolarne l’esercizio, è necessario che essa innanzi tutto rispetti i princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nella allocazione delle funzioni amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario di tali funzioni. È necessario, inoltre, che tale legge detti una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni, e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine. Da ultimo, essa deve risultare adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di

governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione o, comunque, deve prevedere adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali. Quindi, ... la legislazione statale di questo tipo può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n. 6 del 2004 punto 7 del Considerato in diritto)”. Così, con

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estrema chiarezza, si esprime la sentenza n. 278 del 2010, precisando, fra l’altro, che nel vigente “titolo V della Parte seconda della Costituzione non sussiste più «l’equazione elementare interesse nazionale - competenza statale» e che quindi di per sé «l’interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità né di merito, alla competenza legislativa regionale» (sentenza n. 303 del 2003, punto 2.2 del Considerato in diritto)”.

Nel caso di specie nessuna Intesa è stata prevista, ma, come ricordato nel ricorso, un semplice Parere. Da qui la fondatezza della relativa censura.

Ma non solo.

Occorre anche approfondire la grave violazione degli artt. 3 e 97 Cost., nei termini di violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento, che è stata dedotta nel ricorso.

Come sostenuto in quella sede è sulle Regioni che ricade la responsabilità del corretto governo, anche finanziario, dei sistemi sanitari regionali.

Detto questo, è ormai ampiamente documentato che nell’ambito della gestione della sanità, alcune Regioni hanno raggiunto risultati eccellenti, rilevati con indubbia chiarezza da organismi sia nazionali (in termini di garanzia dei Lea e di raggiungimento dell’equilibrio di bilancio) che internazionali (in termini di valutazione comparativa con altri sistemi sanitari: ad esempio si vedano le analisi dell’Ocse).

La creazione di un sistema nazionale di selezione della dirigenza sanitaria, se potrebbe risultare (in ogni caso nel rispetto delle procedure concertative richieste) proporzionato, ragionevole e votato al conseguimento del buon andamento per alcune Regioni che tali risultati non conseguono (in alcuni casi addirittura sistematicamente), appare invece del tutto ingiustificato rispetto a quelle realtà dove in alcun modo è configurabile l’esigenza di un intervento

sostitutivo dello Stato.
In questi ambiti (tra i quali oggettivamente rientra anche la regione Veneto,

assunta dallo stesso governo nazionale a benchmark per la determinazione dei costi standard) la creazione di un sistema nazionale di selezione, con una conseguente ingiustificata retrocessione della autonomia, può con tutta probabilità, condurre al risultato opposto a quello che il legislatore nazionale intenderebbe perseguire.

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Da questo punto di vista, la violazione dei suddetti parametri costituzionali ridonda con tutta evidenza sulla competenza regionale in materia di tutela della salute e di organizzazione del sistema sanitario.

4. Illegittimità costituzionale dell’art. 16, commi 1 e 4, della legge 7 agosto 2015, n. 124, per violazione degli articoli 5, 117, II, III e IV comma, 118 e 119 della Costituzione, nonché del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.

Nell’atto di costituzione, l’Avvocatura di Stato, con riferimento alla norma impugnata, si limita a dedurre quanto segue: quanto al comma 1 “1) la ricorrente indica genericamente l’esistenza di “molteplici interferenze” con competenze regionali, senza argomentare oltre; 2) non viene impugnato il comma 2, nel quale sono indicati i principi e criteri direttivi cui deve attenersi il Governo nell’esercizio della delega.

Il rilievo è privo di pregio.

La Ricorrente ha già precisato che l’impugnativa riguardava la parte relativa alla riorganizzazione e non quella inerente la semplificazione.

Questa difesa, pertanto, non ha ravvisato la necessità di impugnare anche il disposto di cui al comma 2, atteso che non si sono, in sé, rinvenuti profili direttamente attinenti alle competenze regionali.

Rispetto all’art. 16, commi 1 e 4, ha indicato puntualmente le interferenze con le competenze regionali, anche espressamente richiamandosi, per evitare inutili ripetizioni e in ossequio al principio di sinteticità, a quanto dedotto nelle impugnative degli artt. 17, 18 e 19, dal momento che la delega contenuta nell’art. 16 attiene trasversalmente agli ambiti (lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e connessi profili di organizzazione amministrativa; partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche; servizi pubblici locali di interesse economico generale) che sono da questi stessi articoli disciplinati e che attengono a competenze regionali.

Lo stesso comma 3, peraltro, effettua un rimando per relationem affermando: “Il Governo si attiene altresì ai princìpi e criteri direttivi indicati negli articoli da 17 a 19”. Questi ultimi sono stati ritualmente impugnati.

5. Illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, lett. a), b), c), d), e),

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f), l), m), o), q), r), s), t), della legge 7 agosto 2015, n. 124, per violazione degli articoli 5, 117, II, III e IV comma, 118 e 119 della Costituzione, nonché del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.

Sull’articolo 17, rubricato “Riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni”, la memoria dell’Avvocatura dello Stato, oltre a richiamare “le considerazioni svolte in relazione alle censure riguardanti l’articolo 11”, si limita ad aggiungere succintamente che “alcuni criteri, come quello della centralizzazione delle procedure concorsuali, della introduzione del sistema informativo nazionale per orientare la programmazione delle assunzioni, la rilevazione delle competenze dei lavoratori, perseguono, direttamente o indirettamente, l’obiettivo del contenimento della spesa pubblica nonché quello di mantenere in equilibrio i conti consolidati degli enti pubblici”.

Ritiene pertanto di invocare, quale titolo di legittimazione dell’intervento statale, “l’articolo 117, primo comma, lettera e), della Costituzione” in quanto l’intervento statale sarebbe riconducibile “ai principi di coordinamento della finanza pubblica”.

Si tratta di rilievi privi di fondamento.

Le norme impugnate, infatti, introducono una disciplina finalizzata a regolare direttamente anche il pubblico impiego regionale, ledendo in questo modo, dal momento che mancano i presupposti per invocare la riconducibilità all’ordinamento civile, la competenza residuale regionale in materia di organizzazione amministrativa.

In particolare, in tale senso, risultano senza dubbio lesive dell’autonomia regionale le disposizioni seguenti.

• L’art. 17, comma 1, lett. a) introduce una norma volta a favorire, nei meccanismi di valutazione all’interno delle procedure concorsuali, la valorizzazione di coloro che hanno avuto rapporti di lavoro flessibile con le amministrazioni pubbliche. Tale disposizione riguarda senza dubbio un aspetto relativo alla regolamentazione delle modalità di accesso anche al lavoro pubblico regionale, riconosciuta da questa Ecc.ma Corte nel novero della competenza residuale regionale in materia di organizzazione amministrativa delle Regioni (sentenze n. 235 del 2010, n. 100 del 2010, n. 95 del 2008, n. 380 del 2004). La sentenza n. 95 del 2008, peraltro, riguardava

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proprio una norma statale relativa a determinati requisiti che una quota del personale da assumere nelle amministrazioni soggette al patto di stabilità interno doveva possedere2.

• L’art. 17, comma 1, lett. b) introduce criteri relativi alla valutazione delle capacità e dei titoli nell’accertamento delle competenze dei candidati in sede di concorso. Anche in questo caso, la norma riguarda aspetti che regolano altresì le modalità di accesso al lavoro pubblico regionale, ledendo le attribuzioni delle Regioni in materia di organizzazione amministrativa. Al riguardo è utile ricordare che la sentenza n. 380 del 2004 ha dichiarato illegittime norme statali relative alla valutazione dei titoli dei medici nella parte in cui si applicavano ai concorsi banditi dalle Regioni o dagli enti regionali.

• L’art. 17, comma 1, lett. c) dispone lo svolgimento dei concorsi in forma aggregata o centralizzata per tutte le amministrazioni pubbliche. La norma lede chiaramente la potestà legislativa regionale in materia di organizzazione amministrativa in quanto incidente, anche in questo caso, sulla regolazione dell’accesso al lavoro pubblico regionale, le cui modalità di svolgimento mediante concorso non possono che rientrare nella competenza esclusiva regionale (cfr. la stessa sentenza n. 380 del 2004). Sul punto, peraltro, la norma vorrebbe assicurare omogeneità qualitativa e professionale e garantire l’economicità dello svolgimento della procedura concorsuale, non tenendo conto però delle differenti esigenze organizzative di ciascuna Regione.

• Le disposizioni di cui all’art. 17, comma 1, lettere d), e), ed f), riguardano specifiche competenze personali dei candidati che tutte le amministrazioni devono valutare nelle procedure concorsuali per l’accesso al pubblico impiego. In particolare viene disposta la soppressione del requisito del voto minimo di laurea (lett. d), la previsione dell’accertamento di competenze linguistiche (lett. e) e la valorizzazione del titolo di dottore di

2 Corte cost., sent. n. 95 del 2008, punto 2.1. del Considerato in diritto: “Tale norma imponendo che una quota del nuovo personale da assumere a tempo determinato debba possedere certi requisiti attiene alla disciplina delle modalità di accesso all'impiego presso gli enti soggetti al patto di stabilità interno”.

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ricerca (lett. f). Con riferimento al lavoro pubblico regionale, anche tali disposizioni sono da ritenersi lesive della potestà esclusiva regionale in materia di organizzazione amministrativa. Esse infatti incidono sulla disciplina relativa ai requisiti e alla valutazione delle competenze dei futuri dipendenti della Regione e riguardano quindi le modalità di accesso al lavoro regionale (cfr. sentenze n. 95 del 2008 e n. 380 del 2004).

• L’art. 17, comma 1, lett. r) introduce una disciplina riguardante le norme in materia di valutazione dei dipendenti pubblici. La norma impugnata non può certo confluire all’interno della materia ordinamento civile, in quanto non riguarda alcuno degli aspetti relativi agli aspetti privatizzati del rapporto di lavoro. Essa attiene invece agli aspetti pubblicistico-organizzativi, avendo lo scopo di misurare i risultati raggiunti dall’organizzazione e dai singoli dipendenti, nonché di potenziare la valutazione del livello di efficienza e qualità dei servizi. Con riferimento alla valutazione dei dipendenti delle Regioni o degli enti regionali, quindi, la norma è da ritenersi lesiva della competenza residuale regionale in materia di organizzazione amministrativa.

Quanto alla riconducibilità, prospettata dall’Avvocatura dello Stato, di determinate disposizioni alla materia del coordinamento della finanza pubblica, occorre rilevare che se, a tutto volere, tale titolo di legittimazione può eventualmente essere invocato in relazione alle lett. m) e q), non è certamente pertinente riguardo alle altre disposizioni impugnate.

Come più volte evidenziato da Codesta Ecc.ma Corte, la potestà concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica consente allo Stato di fissare principi fondamentali riguardanti obiettivi generali di contenimento della spesa relativa al personale regionale (ex multis sentenze n. 61 del 2014; n. 169 del 2007; n. 412 del 2007), ovvero i livelli massimi di trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti delle Regioni e degli enti regionali, con l’effetto di predeterminare “l’entità complessiva degli esborsi a carico delle Regioni a titolo di trattamento economico del personale [...] così da imporre un limite generale ad una rilevante voce del bilancio regionale” (ex multis sentenze n. 269 del 2014 e n. 217 del 2012).

È dunque del tutto privo di fondamento ritenere che norme sulla centralizzazione o accentramento delle procedure concorsuali e sulla rivelazione delle competenze dei lavoratori possano collocarsi tra i principi

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fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica.
Esse infatti, lungi dal disporre obiettivi generali riguardanti la spesa relativa al personale, sono dirette a introdurre norme specifiche concernenti unicamente le modalità di accesso all’impiego. Di conseguenza, con riferimento ai dipendenti regionali o degli enti regionali, risulta invasa la competenza residuale relativa all’organizzazione amministrativa regionale.
In conclusione, anche in questo caso, le disposizioni impugnate configurano una chiamata in sussidiarietà senza che siano rispettate le richieste forme di concertazione con le Regioni.

6. Illegittimità costituzionale dell’art. 18, lett. a), b), c), e), i), l) e m), punti da 1 a 7, della legge 7 agosto 2015, n. 124, per violazione degli articoli 5, 117, II, III e IV comma, 118 e 119 della Costituzione, nonché del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.

6.1. In relazione alle censure svolte dalla Ricorrente riguardo all’articolo 18, “Riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche”, la memoria di costituzione si limita a obiettare che le disposizioni impugnate rientrano nella materia dell’ordinamento civile, in quanto: “le partecipazioni azionarie delle pubbliche amministrazioni (regioni comprese) e le attività svolte dalle partecipate non rientrano, invece, nella materia dell'organizzazione amministrativa, perché non sono rivolte a regolare una modalità di svolgimento dell'attività amministrativa, bensì nell’ordinamento civile, perché mirano a definire il regime giuridico di soggetti di diritto privato e a tracciare il confine tra attività amministrativa e attività di persone giuridiche private”.

Il rilievo è assolutamente generico e privo di pregio. Non si vede, ad esempio, quale attinenza può avere con l’“ordinamento civile” la lettera e) che riguarda la razionalizzazione del regime pubblicistico per gli acquisti e il reclutamento del personale, per i vincoli alle assunzioni e le politiche retributive. O, ancora, la lettera i) che assegna allo Stato il compito di disciplinare la possibilità di piani di rientro per le società con bilanci in disavanzo con eventuale commissariamento. O, infine, la lettera l) che assegna allo Stato la

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regolazione dei flussi finanziari, sotto qualsiasi forma, tra amministrazione pubblica e società partecipate secondo i criteri di parità di trattamento tra imprese pubbliche e private e operatore di mercato.

Quanto alla inerenza alla materia dell'organizzazione amministrativa regionale delle discipline di cui alle lettera a) e b), nel ricorso si è ricordata la sentenza n. 229/2013 di Codesta Ecc. ma Corte che espressamente afferma la riconducibilità delle suddette discipline, che le norme impugnate invece assegnano allo Stato, a questa competenza regionale3 (peraltro appare più che azzardato il tentativo di affermare invece la piena riconducibilità delle società partecipate al regime privatistico anziché a quello pubblicistico, cfr. al riguardo la sent. n. 148 del 2009 e la sent. n. 326 del 20084 di Codesta Ecc.ma Corte).

Secondo la memoria di costituzione dell’Avvocatura di Stato, inoltre, “poiché dette disposizioni hanno il dichiarato scopo di evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali, quindi a impedire che le società con partecipazione pubblica costituiscano fattori di distorsione della

3 Nella sentenza n. 229 del 2013, come ricordato nel ricorso, si afferma: “disposizioni statali rivolte a vietare ... alle Regioni di assumere o mantenere partecipazioni in società pubbliche comportano l’illegittima conseguenza di sottrarre alle Regioni medesime “la scelta in ordine alle modalità organizzative di svolgimento delle attività di produzione di beni o servizi strumentali alle proprie finalità istituzionali ... In sostanza, [...] precludono anche alle Regioni, titolari di competenza legislativa residuale e primaria in materia di organizzazione, costituzionalmente e statutariamente riconosciuta e garantita, la scelta di una delle possibili modalità di svolgimento dei servizi strumentali alle proprie finalità istituzionali”.

4 Corte cost., sent. n. 326 del 2008: “8.4. - Dal primo punto di vista, le disposizioni in esame riguardano l'attività di società partecipate dalle Regioni e dagli enti locali. Si tratta di un oggetto che può rientrare nella materia dell'organizzazione amministrativa, di competenza legislativa regionale, o, al pari delle previsioni in materia di contratti, pure contenute nell'articolo impugnato, nella materia dell'«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato. L'ambito di tale ultima materia è stato precisato da questa Corte. Essa ha affermato che la potestà legislativa dello Stato comprende gli aspetti che ineriscono a rapporti di natura privatistica, per i quali sussista un'esigenza di uniformità a livello nazionale; che essa non è esclusa dalla presenza di aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche; che essa comprende la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato; che in essa sono inclusi istituti caratterizzati da elementi di matrice pubblicistica, ma che conservano natura privatistica (sentenze nn. 159 e 51 del 2008, nn. 438 e 401 del 2007 e n. 29 del 2006)”.

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concorrenza, la disciplina da esse dettata rientra nella materia della “tutela della concorrenza”, di esclusiva competenza statale”.

Anche tale assunto non può essere condiviso.

Disposizioni come quelle di cui alla lettera d) sulle responsabilità degli amministratori o come quelle della lettera e) sulla razionalizzazione del regime pubblicistico per gli acquisti e il reclutamento del personale, per i vincoli alle assunzioni e le politiche retributive, non appaino ascrivibili allo scopo di “impedire che le società con partecipazione pubblica costituiscano fattori di distorsione della concorrenza.

Nell’insieme, quindi, posto che l’eterogenea disciplina contenuta nelle disposizioni impugnate non è ascrivibile, nel suo insieme, ad una specifica competenza statale, si deve ritenere che le norme impugnate hanno realizzato una assunzione in sussidiarietà delle relative competenze regionali in materia di organizzazione amministrativa regionale, che potrebbe però superare il vaglio di costituzionalità solo, come si è già visto nel p.to 3.5 della presente memoria cui si rimanda, solo in presenza di adeguate attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia di una Intesa.

6.2. Secondo la memoria di costituzione dell’Avvocatura di Stato, infine, le stesse “considerazioni si possono svolgere con riguardo alle censure relative alla disciplina sul riordino dei servizi pubblici locali”.

In questo caso però verrebbero “in rilievo altresì l’articolo 117, primo comma, lettera m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali”, nonché “l'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione che riserva allo Stato la potestà legislativa in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, province e Città metropolitane".

L’assunto, tuttavia, non coglie la specificità della censura esposta nel ricorso che lamentava la soppressione, da parte delle norme impugnate, di un qualsiasi spazio alla legislazione regionale, la cui esistenza invece è stata affermata dalla giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte ad esempio nella sentenza, ricordata nel ricorso, n. 29/2006.

7. Illegittimità costituzionale dell’art. 19, lett. b), c), d), g), h), l), m), n),

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o), p), s), t), u), della legge 7 agosto 2015, n. 124, per violazione degli articoli 5, 117, II, III e IV comma, 118 e 119 della Costituzione, nonché del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.

La memoria di costituzione dell’Avvocatura dello Stato riconosce espressamente che l’intervento legislativo è diretto ad operare “il riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale”, ma ne afferma - in realtà senza adeguatamente motivare - la riconducibilità alla “competenza legislativa esclusiva dello Stato, non solo in relazione alla materia tutela della concorrenza (secondo comma, lett. e), dell’art. 117 della Cost), ma anche in relazione alla materia funzioni fondamentali degli enti locali (secondo comma, lett. p), dell’art. 117 della Cost)”, nonché a quella relativa alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali(secondo comma, lett. m), dell’art. 117 Cost.)”. Sostiene poi che si sia, in ogni caso in presenza, di “principi di coordinamento in materia di finanza pubblica ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.”.

Da questo punto di vista essa non coglie la specificità della censura regionale.

Questa, infatti, è impostata sulla violazione, in relazione a determinati settori di sicura pertinenza regionale, come quello del trasporto pubblico locale (cui la stessa Avvocatura riconosce la pertinenza, affermando il carattere generale della riforma), dei principi di proporzionalità ed adeguatezza su cui è necessario basarsi “al fine di valutare, nelle diverse ipotesi, se la tutela della concorrenza legittimi o meno determinati interventi legislativi dello Stato” (sent. n. 272 del 2004, ricordata nel ricorso).

In relazione quindi alla evidente interferenza su ambiti di sicura competenza regionale, documentata analiticamente nel ricorso, la censura regionale si conclude denunciando l’insufficienza della forma di raccordo con le Regioni prevista dalle disposizioni impugnate.

Si tratta di un aspetto segnalato, peraltro, con decisione dalla dottrina: “L'ampiezza dell’intervento legislativo statale appare comprimere eccessivamente l'autonomia legislativa del legislatore regionale. Oltre ai casi appena menzionati relativi agli strumenti di partecipazione degli utenti e alla tutela non giurisdizionale, si può far riferimento anche alla lettera n) dove il legislatore statale è delegato a individuare poteri di regolazione e controllo tra

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i diversi livelli di governo al fine di assicurare trasparenza, contenimento dei costi e aumento degli standard di qualità dei servizi, marginalizzando completamente il ruolo delle regioni che, soprattutto con riferimento ai cosiddetti servizi pubblici impropri che sono quelli erogati a livello locale ma di scala provinciale e/o regionale, trova davvero scarso fondamento”5.

Venezia-Roma, 22 settembre 2016 avv. Ezio Zanon
avv. prof. Luca Antonini
avv. Luigi Manzi

5 GIGLIONI F., La nuova disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale in attesa dell'esercizio della delega, in Federalismi.it, n. 20/2015, p. 5; ma si veda anche PASSALACQUA M., La regolazione amministrativa degli ATO per la gestione dei servizi pubblici locali a rete, ivi, n. 1/2016, p. 42 ss. proprio con specifico riguardo alla Legge Madia.